Namastè: è stata questa la prima parola che ci ha accolto in Nepal… Un saluto semplice, pronunciato con tono gentile e lievemente lamentoso, sottolineato dal tipico gesto del capo chino tra le mani unite… E’ stata questa la parola che ci ha accompagnato ovunque, pronunciata prima ancora che con le labbra con gli occhi e con i sorrisi…
Per chi non è mai stato in Asia l’impatto con la povertà può essere devastante, ma basta poco per rendersi conto di quanta ricchezza e quale dignità siano nella gente, in quegli occhi scuri e profondi che ti penetrano l’anima ma, pur incuriositi dalla tua diversità, più apparente che sostanziale, ti fanno sentire comunque accolto…
Noi occidentali non siamo abituati ad un tale bombardamento di colori e di odori, la nostra specialità è passare inosservati attraverso il mondo rubando immagini con le nostre attrezzature fotografiche super tecnologiche... Ma da qui non si può passare così, bisogna fermarsi, lasciarsi osservare, guardare questi volti dai tratti somatici così diversi dai nostri ed alcuni dei quali di infinita bellezza, bisogna riempirsi gli occhi, farsi stordire i sensi e lasciare che le immagini, i sorrisi, la diversità arrivino fino al cuore… Solo in questo modo –osservando con il cuore- si può comprendere la sincerità e il rispetto di quel saluto pronunciato col capo chino tra le mani, la bellezza di questo popolo apparentemente più sfortunato di noi occidentali, l’importanza di una cultura che unisce non so quanti milioni di persone in un sentire comune che di questa gente è la più grande forza…
L’itinerario - Il nostro percorso si è svolto ad anello per complessivi mille chilometri… Può sembrare una distanza breve ma su quelle strade le medie raramente superano i 25-30 km all’ora e questa è la prima cosa che chi vuole girare il Nepal su due ruote deve tenere presente. La cavalcatura è rappresentata da una Royal Enfield 500, una moto dall’indiscutibile fascino ma che in quanto ad affidabilità è senz’altro una grossa incognita. Ne prendiamo possesso lo stesso giorno dell’arrivo, dopo circa due ore di fila a 30 gradi all’aeroporto di Kathmandu per ottenere il visto turistico sul passaporto.
Il primo giro con la Enfield si svolge nella capitale nepalese e, nonostante siamo motociclisti esperti, si rivela piuttosto traumatico. Non tanto per la guida a sinistra quanto per le condizioni delle strade e l’enorme varietà di “veicoli”che le popolano: grossi autobus strapieni con la gente perfino sul tetto, biciclette, risciò, camion ciondolanti che suonano con insistenza come a dirti “passo io, sono più grosso!”, venditori ambulanti, pedoni, cani e vacche…
E’ una bolgia infernale, completamente senza regole, caratterizzata da un livello altissimo di inquinamento, anche acustico in quanto la seconda regola per girare in moto in Nepal è quella di avere un clacson funzionante… Non esiste, infatti, un’esatta corsia di marcia: se c’è più traffico in una direzione, la corsia opposta viene tranquillamente“invasa”, i sorpassi si effettuano alla cieca ma accompagnati da una sonora strombazzata di clacson, e non è raro per chi è in moto doversi buttare fuori strada per fare spazio ad un veicolo più grosso e più prepotente che gli viene inspiegabilmente e rumorosamente incontro… Anche sulle strade di montagna, meno trafficate, le regole sono le stesse, e identico è il modo di guidare, tant’è che gli incidenti sono abbastanza frequenti. D’altronde in Nepal non esiste un codice della strada, non esiste neppure l’esame per la patente, per avere la licenza di guida è sufficiente sborsare una cifra che si aggira intorno alle 2000 rupie, circa 20 euro. La terza regola per girare il Nepal in moto è dunque quella di far venir fuori il pilota aggressivo che è in ognuno di noi: è una questione di sopravvivenza, basta un attimo di incertezza per trovarsi fuori corsa, ed allora la cosa migliore da fare è partecipare al gioco, perché è così che i nepalesi intendono la strada: un gigantesco luna park.
Presa confidenza con la Enfield, con le strade piene di buche e con il traffico, ci apprestiamo a compiere il primo grande trasferimento stradale, quello che per le coppie nepalesi rappresenta il viaggio di nozze tipico: ci spostiamo da Kathmandu a Pokhara. Sono circa 200 km ma per percorrerli impieghiamo circa dieci ore. La Prithvi Highway è infatti la strada più trafficata del Nepal; essa si snoda attraverso una serie di profonde valli fluviali e fiancheggia antichi villaggi di pietra. Impiego poco a rendermi conto che a questo tragitto andrebbero in realtà dedicati 2-3 giorni, il mio occhio fotografico è in sobbuglio tanto è sollecitato.
Dopo tre ore abbiamo percorso meno di 30 km ma siamo riusciti ad uscire dalla capitale e dall’incredibile traffico che la avvolge. Ci imbattiamo nei primi villaggi e nei loro abitanti che ci guardano curiosi e amichevoli. Quando alzo la mano in cenno di saluto i bambini si animano e ci urlano sorridenti “Hello!Hello!”… Nelle soste per bere assistiamo a piccoli momenti della vita quotidiana nepalese: la lunga contrattazione di una donna per comprare tre zucche da una contadina, il lavaggio dei piatti alla fontana del villaggio, la raccolta dello sterco da usare come combustibile, il lavaggio dei panni nel fiume, i lavori nei campi… Ci sono ovunque coltivazioni a terrazzamenti, risaie, alberi di banane, donne che trasportano giganteschi fasci d’erba, gente che vive per strada… mentre i miei compagni fanno rifornimento di carburante ad una decrepita stazione di servizio di fronte ad un’altra chiamata “Buddha Oil” vado ad acquistare delle banane: porgo al venditore una banconota da 20 rupie (pari a 20 cents) e lui mi mette in mano una busta contenente ben dodici banane! E’ una festa!
Ci fermiamo per pranzo in un resort a metà strada tra Kathmandu e Pokhara, dove ci concediamo il primo pranzo tipico nepalese: zuppa, riso, verdure scottate, peperonata e pollo al curry, tutto mischiato nello stesso piatto.
Quando riprendiamo la strada il tempo comincia a cambiare: fa meno caldo ed il cielo è sempre più coperto. Arriviamo col buio e sotto un vero e proprio diluvio, la strada è piena di gente, ci sono molte vacche vaganti. Raggiungiamo l’hotel e dopo una doccia rigenerante ci concediamo una gustosa cena e intanto pianifichiamo cosa fare l’indomani. L’idea originaria era di salire a Sarangkot alle cinque di mattina per assistere allo spettacolo dell’alba sulla catena dell’Annapurna, ma fuori continua a piovere incessantemente e dunque andiamo a letto sapendo che uno di noi ha già messo la sveglia alle quattro e dovrà svegliare gli altri solo dopo aver valutato la situazione meteo…
Alle 4.30 il nostro compagno bussa alla nostra porta e ci dà l’okay. Usciamo senza far colazione e che è ancora buio. Per strada c’è già gente. Non piove e il cielo è sereno. La nostra Enfield dopo manco due chilometri decide di procedere al buio e questa improvvisa cecità le guadagnerà il nome che dovrà tenersi per l’intero viaggio: la cecata. E’ in buona compagnia: ci sono la poderosa, la scarciana e la sfondata… I nostri compagni ci mettono nel mezzo e con i loro fanali e le nostre ruote percorriamo l’ora di strada che ci separa dal bellissimo punto panoramico da dove vedremo le altissime vette dell’Annapurna, del Machhapuchhare e degli altri 8000 accendersi ad una ad una. Ce n’è di gente ad assistere allo spettacolo dell’alba sulla catena dell’Annapurna, richiamata dalla giornata limpida seguita al tremendo temporale della sera prima, e non mi sembrano turisti.
Lasciato il punto panoramico guidiamo attraverso una serie di coloratissimi villaggi che offrono vedute spettacolari sull’Annapurna. Rientriamo in hotel alle 9 passate e con profonda meraviglia mi accorgo che dal balcone della nostra stanza si vede benissimo il gigante bianco. Il tempo di fare colazione e ci incamminiamo verso il Phewa Tal, che di Pokhara è la principale attrattiva assieme agli ottimi ristoranti. Con poche rupie noleggiamo una barca con tanto di rematore e ci lasciamo condurre dove parte il sentiero per la Pagoda per la Pace nel Mondo. Qui il gruppo si divide: due temerari partono per il ripido sentiero, noi altri ce ne stiamo sornioni in riva al lago a fotografare le barche colorate e a sorseggiare una brodaglia marroncina che i nepalesi chiamano caffè. E’ qui che avviene il nostro primo incontro con dei piccolissimi insetti molto diffusi in Nepal, soprattutto nelle zone umide: le sanguisughe. Io me la scampo grazie agli stivali della moto ma Andrea e Giovanni vengono “pizzicati”.
Quando vediamo i due temerari rientrare alla base distrutti dal caldo e dalla salita è già ora di pranzo. Stavolta con il riso mangiamo anziché il solito pollo un gustosissimo pesce di lago.
A questo punto l’itinerario prevederebbe un giro in moto alle cascate di Devi ed alla Grotta di Gupteshwor Mahadev, ma di nuovo il cielo brontola e non appena rientriamo in albergo comincia a piovere violentemente.
L’indomani di buon’ora partiamo per Lumbini, altra città a circa 200 km di distanza. La tappa si rivela lunga e massacrante, nonostante la bellezza dei villaggi e del paesaggio, a causa delle pessime condizioni delle strade, che in più tratti non sono che gigantesche pietraie, e di una frana che ci fa perdere circa un’ora.
Proprio per strada notiamo che i villaggi sono tutti un po’ agitati attorno a dei grossi bufali. Capiamo in un attimo che è giornata di sacrifici e così ci fermiamo ad assistere allo spettacolo dell’uccisione di un bufalo. Non è per sadismo che uso la parola “spettacolo” bensì perché la religiosità di questo popolo fa sì che questo genere di evento sia in realtà un“sacrificio” e come tale sia preceduto e seguito da una serie di riti come quello di cospargere il capo dell’animale da sacrificare di fiori e di incensi recitando preghiere.
In realtà più che all’uccisione del bufalo sono interessata alla gente: tutto il villaggio partecipa all’evento, e questo mi consente di osservare, di fotografare, di familiarizzare con la gente, in particolare con i bambini che si lasciano fotografare per avere poi la possibilità di guardarsi sullo schermo della macchina fotografica digitale… Vorrei avere con me una stampante per potergli regalare le foto e poter cogliere un lampo di gioia in quegli occhi scuri e profondi…
Sono belli i bimbi nepalesi e sono tanti. Molti non hanno neppure le scarpe ma quando sorridono ti trapassano il cuore.
Arriviamo a Lumbini poco dopo le 16. L’albergo è davvero molto bello, la città invece offre poco sebbene sia molto famosa per aver dato i natali al Buddha nel maggio del 563 a.C. Visitiamo l’antico tempio di Maya Devi, rigorosamente a piedi nudi, dopo aver pagato un biglietto supplementare per macchina fotografica e cinepresa, ma non riusciamo a cogliere fino in fondo la sacralità del posto che, sinceramente, non ci sembra niente di che nonostante sia considerato dalle guide uno dei siti religiosi più importanti del mondo. Tuttavia, questa cittadina è l’unica a metà strada tra Pokhara ed il Chitwan che offre una buona sistemazione per la notte e dunque per i turisti occidentali è un po’ una tappa obbligata.
L’indomani riprendiamo la strada diretti al Chitwan. Ancora una volta ci troviamo ad attraversare coloratissimi villaggi e tratti di sterrato e di pietraia, soprattutto nella parte finale del giro. Arriviamo intorno alle 15, dopo aver incontrato per strada scimmie, cammelli ed elefanti. Perdiamo circa un’ora a causa della sfondata che, improvvisamente, perde la marmitta ed ha una emorragia di olio, ma grazie alle sapienti mani di Robert, il meccanico che ci accompagna, riesce ad arrivare a destinazione dove però subirà un ricovero di 48 ore.
Il resort è molto suggestivo, alloggiamo in piccoli lodge a due letti privi di energia elettrica. Tutto è all’insegna del massimo rispetto per l’ambiente. Non vedremo la cecata per due giorni, durante i quali lei e le altre Enfield saranno nelle mani di Robert, che ce la renderà nuovamente vedente.
Alla sella della moto si sostituisce immediatamente un’altra sella, molto più comoda, quella di un gigantesco elefante indiano. Difatti il calendario delle attività del Parco è molto fitto, quasi non ci danno il tempo di sistemarci che già ci portano nella giungla a dorso di elefante. La passeggiata dura circa due ore ed è molto emozionante: grazie al pachiderma riusciamo a vedere da vicino un paio di daini e molte specie di uccelli dai colori sgargianti, ma soprattutto abbiamo l’occasione di osservare a lungo mamma rinoceronte ed il suo piccolo.
Proprio il rinoceronte è il simbolo di questo parco, ce ne sono parecchi esemplari ed è abbastanza usuale avvistarli nel corso dei safari a dorso di elefante. In realtà per noi l’incontro si ripete anche il giorno successivo e stavolta siamo a piedi: un rinoceronte adulto si è spinto fino alla nursery degli elefanti, cosa inusuale, e dunque c’è molta agitazione anche trai pachidermi, preoccupati per i loro piccoli. La nursery ospita numerosi esemplari di elefante, il più piccolo ha appena due mesi e mezzo ed è tenerissimo osservarlo mentre prende il latte dalla madre e gioca con dell’erba.
Altra bellissima escursione cui partecipiamo è la navigazione del fiume a bordo di una canoa scavata in un tronco d’albero: il mezzo silenzioso è l’ideale per osservare gli uccelli e le tribù che abitano nei villaggi sparsi lungo il fiume, ma col senno di poi forse è stato un azzardo solcare un corso d’acqua dove vivono gaviali e coccodrilli. Maturo questa consapevolezza dopo essermi imbattuta in tre grossi esemplari degni di nota.
Le due giornate al Chitwan trascorrono intensamente tra un’attività e l’altra. Visitiamo gli abitanti di un vicino villaggio, i quali ci accolgono nelle loro capanne con gioiosi e ospitali sorrisi, assistiamo ad uno spettacolo di danze tribali, facciamo il bagno nel fiume a dorso di elefante, giochiamo con una femmina di elefante durante una lezione su questi splendidi animali e ne apprezziamo la dolcezza e la mansuetudine con cui accetta di essere compagna dell’uomo.
Quando ritroviamo la moto le mie piaghe dovute alla scomodità della sella non si sono ancora rimarginate e basta poco perché si riaprano: vi assicuro, non c’è cosa peggiore del sellino posteriore di una Enfield! Tuttavia stringo i denti e riprendo il viaggio. Ci attende una giornata impegnativa. La destinazione è Bakthapur, dove arriveremo dopo aver attraversato un suggestivo passo di montagna.
La strada è subito molto panoramica e fresca, offre vedute di alta montagna davvero suggestive e sfiora i 2500 metri di altitudine. Arriviamo a destinazione nel tardo pomeriggio, alloggiamo in un hotel di proprietà di un nostro connazionale che ci accoglie con una sincera stretta di mano e che l’indomani ci informerà che la nostra scelta di fare il passo di montagna per raggiungere Bakthapur si è rivelata azzeccata poiché l’altra strada è rimasta bloccata fino a sera a causa di un spaventoso incidente. Pare che un autobus abbia investito un bambino e che gli abitanti del villaggio abbiano deciso di farsi giustizia da soli rovesciando il mezzo e bloccando la strada. Ho sentito dire che in Nepal chi investe qualcuno deve mantenerlo fino a guarigione completa, ragion per cui talvolta si torna indietro per “completare l’opera”, ma immagino sia solo una battuta volta a sottolineare la totale assenza di regole che caratterizza questo paese, soprattutto dopo aver conosciuto la pacatezza della sua gente.
Bakthapur ci accoglie nella luce del tramonto: è splendida, il rosso delle case e degli antichi templi risalta più che mai, come pure la sua veste di città molto amata dai turisti. L’ingresso costa 10 dollari a persona. Dovrebbe essere una città pedonale ma invece le sue strette strade sono strapiene di moto. Già, perché in Nepal la moto è il mezzo più diffuso. Si vedono moltissime 125 giapponesi, modelli che sul nostro mercato non esistono, e trasportano intere famiglie. La cosa che più mi incuriosisce è la pedana laterale per il passeggero, che così può viaggiare seduto ad amazzone. Qualcuno anziché uno o due figli regge in braccio una capra.
Grazie ad una guida locale che parla benissimo l’italiano riusciamo a vedere anche la Bakthapur più vera, quella cioè meno turistica e più nascosta. Assistiamo a numerosi sacrifici nei templi, visitiamo talune botteghe ed una scuola di pittura con annesso il relativo negozio. E’ tutto molto bello, la gente è ospitale, i bambini ti chiamano dalle finestre per farsi fotografare, i negozi espongono ogni sorta di artigianato e per strada ci sono numerosi gruppi che giocano animatamente a carte. Ma la cosa che più mi rapisce sono gli splendidi templi. Per molti versi questo sembra un luogo senza tempo, in cui l’aspetto medievale si mischia con quello più moderno di città che, grazie ad un progetto finanziato negli anni settanta dal governo tedesco, ha potuto restaurare molti edifici decadenti, asfaltare le strade e dotarsi di una rete fognaria.
Passeggiare per la città è bellissimo: gli occhi sono continuamente rapiti da mille particolari: le pannocchie appese ad asciugare, le donne intente a pestare il grano, il riso steso ad asciugare al sole, i venditori di spezie che espongono sacchi di iuta pieni di cose dalle mille forme e dai mille colori. Riesco a malapena a distinguere lo zucchero, che qui è marroncino e viene venduto in grezze zollette piccole e irregolari.
E’ pomeriggio quando ripartiamo per la capitale, dove trascorreremo i nostri ultimi due giorni nepalesi. Avendo già visitato il famosissimo tempio hindu di Pashupatinath, dove abbiamo assistito anche al rito della cremazione dei defunti, e gli stupa di Bodnath e Swayanbunath, tutti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, decidiamo di dedicarci a Durbar Square e di fare un po’ di shopping.
L’iniziale imbarazzo verso il traffico e la confusione di Kathmandu è ormai svanito, ci muoviamo nella città perfettamente a nostro agio; curiosi e divertiti ci dedichiamo anche all’arte della contrattazione, che qui è un vero e proprio rito.
La riconsegna delle moto avviene senza traumi, per me è quasi una liberazione.
Quando saliamo sull’aereo che ci riporterà in Italia siamo tutti più ricchi e più sereni, questo viaggio e questa cultura hanno lasciato in ognuno di noi qualcosa di estremamente prezioso che non dimenticheremo mai.
Per chi non è mai stato in Asia l’impatto con la povertà può essere devastante, ma basta poco per rendersi conto di quanta ricchezza e quale dignità siano nella gente, in quegli occhi scuri e profondi che ti penetrano l’anima ma, pur incuriositi dalla tua diversità, più apparente che sostanziale, ti fanno sentire comunque accolto…
Noi occidentali non siamo abituati ad un tale bombardamento di colori e di odori, la nostra specialità è passare inosservati attraverso il mondo rubando immagini con le nostre attrezzature fotografiche super tecnologiche... Ma da qui non si può passare così, bisogna fermarsi, lasciarsi osservare, guardare questi volti dai tratti somatici così diversi dai nostri ed alcuni dei quali di infinita bellezza, bisogna riempirsi gli occhi, farsi stordire i sensi e lasciare che le immagini, i sorrisi, la diversità arrivino fino al cuore… Solo in questo modo –osservando con il cuore- si può comprendere la sincerità e il rispetto di quel saluto pronunciato col capo chino tra le mani, la bellezza di questo popolo apparentemente più sfortunato di noi occidentali, l’importanza di una cultura che unisce non so quanti milioni di persone in un sentire comune che di questa gente è la più grande forza…
L’itinerario - Il nostro percorso si è svolto ad anello per complessivi mille chilometri… Può sembrare una distanza breve ma su quelle strade le medie raramente superano i 25-30 km all’ora e questa è la prima cosa che chi vuole girare il Nepal su due ruote deve tenere presente. La cavalcatura è rappresentata da una Royal Enfield 500, una moto dall’indiscutibile fascino ma che in quanto ad affidabilità è senz’altro una grossa incognita. Ne prendiamo possesso lo stesso giorno dell’arrivo, dopo circa due ore di fila a 30 gradi all’aeroporto di Kathmandu per ottenere il visto turistico sul passaporto.
Il primo giro con la Enfield si svolge nella capitale nepalese e, nonostante siamo motociclisti esperti, si rivela piuttosto traumatico. Non tanto per la guida a sinistra quanto per le condizioni delle strade e l’enorme varietà di “veicoli”che le popolano: grossi autobus strapieni con la gente perfino sul tetto, biciclette, risciò, camion ciondolanti che suonano con insistenza come a dirti “passo io, sono più grosso!”, venditori ambulanti, pedoni, cani e vacche…
E’ una bolgia infernale, completamente senza regole, caratterizzata da un livello altissimo di inquinamento, anche acustico in quanto la seconda regola per girare in moto in Nepal è quella di avere un clacson funzionante… Non esiste, infatti, un’esatta corsia di marcia: se c’è più traffico in una direzione, la corsia opposta viene tranquillamente“invasa”, i sorpassi si effettuano alla cieca ma accompagnati da una sonora strombazzata di clacson, e non è raro per chi è in moto doversi buttare fuori strada per fare spazio ad un veicolo più grosso e più prepotente che gli viene inspiegabilmente e rumorosamente incontro… Anche sulle strade di montagna, meno trafficate, le regole sono le stesse, e identico è il modo di guidare, tant’è che gli incidenti sono abbastanza frequenti. D’altronde in Nepal non esiste un codice della strada, non esiste neppure l’esame per la patente, per avere la licenza di guida è sufficiente sborsare una cifra che si aggira intorno alle 2000 rupie, circa 20 euro. La terza regola per girare il Nepal in moto è dunque quella di far venir fuori il pilota aggressivo che è in ognuno di noi: è una questione di sopravvivenza, basta un attimo di incertezza per trovarsi fuori corsa, ed allora la cosa migliore da fare è partecipare al gioco, perché è così che i nepalesi intendono la strada: un gigantesco luna park.
Presa confidenza con la Enfield, con le strade piene di buche e con il traffico, ci apprestiamo a compiere il primo grande trasferimento stradale, quello che per le coppie nepalesi rappresenta il viaggio di nozze tipico: ci spostiamo da Kathmandu a Pokhara. Sono circa 200 km ma per percorrerli impieghiamo circa dieci ore. La Prithvi Highway è infatti la strada più trafficata del Nepal; essa si snoda attraverso una serie di profonde valli fluviali e fiancheggia antichi villaggi di pietra. Impiego poco a rendermi conto che a questo tragitto andrebbero in realtà dedicati 2-3 giorni, il mio occhio fotografico è in sobbuglio tanto è sollecitato.
Dopo tre ore abbiamo percorso meno di 30 km ma siamo riusciti ad uscire dalla capitale e dall’incredibile traffico che la avvolge. Ci imbattiamo nei primi villaggi e nei loro abitanti che ci guardano curiosi e amichevoli. Quando alzo la mano in cenno di saluto i bambini si animano e ci urlano sorridenti “Hello!Hello!”… Nelle soste per bere assistiamo a piccoli momenti della vita quotidiana nepalese: la lunga contrattazione di una donna per comprare tre zucche da una contadina, il lavaggio dei piatti alla fontana del villaggio, la raccolta dello sterco da usare come combustibile, il lavaggio dei panni nel fiume, i lavori nei campi… Ci sono ovunque coltivazioni a terrazzamenti, risaie, alberi di banane, donne che trasportano giganteschi fasci d’erba, gente che vive per strada… mentre i miei compagni fanno rifornimento di carburante ad una decrepita stazione di servizio di fronte ad un’altra chiamata “Buddha Oil” vado ad acquistare delle banane: porgo al venditore una banconota da 20 rupie (pari a 20 cents) e lui mi mette in mano una busta contenente ben dodici banane! E’ una festa!
Ci fermiamo per pranzo in un resort a metà strada tra Kathmandu e Pokhara, dove ci concediamo il primo pranzo tipico nepalese: zuppa, riso, verdure scottate, peperonata e pollo al curry, tutto mischiato nello stesso piatto.
Quando riprendiamo la strada il tempo comincia a cambiare: fa meno caldo ed il cielo è sempre più coperto. Arriviamo col buio e sotto un vero e proprio diluvio, la strada è piena di gente, ci sono molte vacche vaganti. Raggiungiamo l’hotel e dopo una doccia rigenerante ci concediamo una gustosa cena e intanto pianifichiamo cosa fare l’indomani. L’idea originaria era di salire a Sarangkot alle cinque di mattina per assistere allo spettacolo dell’alba sulla catena dell’Annapurna, ma fuori continua a piovere incessantemente e dunque andiamo a letto sapendo che uno di noi ha già messo la sveglia alle quattro e dovrà svegliare gli altri solo dopo aver valutato la situazione meteo…
Alle 4.30 il nostro compagno bussa alla nostra porta e ci dà l’okay. Usciamo senza far colazione e che è ancora buio. Per strada c’è già gente. Non piove e il cielo è sereno. La nostra Enfield dopo manco due chilometri decide di procedere al buio e questa improvvisa cecità le guadagnerà il nome che dovrà tenersi per l’intero viaggio: la cecata. E’ in buona compagnia: ci sono la poderosa, la scarciana e la sfondata… I nostri compagni ci mettono nel mezzo e con i loro fanali e le nostre ruote percorriamo l’ora di strada che ci separa dal bellissimo punto panoramico da dove vedremo le altissime vette dell’Annapurna, del Machhapuchhare e degli altri 8000 accendersi ad una ad una. Ce n’è di gente ad assistere allo spettacolo dell’alba sulla catena dell’Annapurna, richiamata dalla giornata limpida seguita al tremendo temporale della sera prima, e non mi sembrano turisti.
Lasciato il punto panoramico guidiamo attraverso una serie di coloratissimi villaggi che offrono vedute spettacolari sull’Annapurna. Rientriamo in hotel alle 9 passate e con profonda meraviglia mi accorgo che dal balcone della nostra stanza si vede benissimo il gigante bianco. Il tempo di fare colazione e ci incamminiamo verso il Phewa Tal, che di Pokhara è la principale attrattiva assieme agli ottimi ristoranti. Con poche rupie noleggiamo una barca con tanto di rematore e ci lasciamo condurre dove parte il sentiero per la Pagoda per la Pace nel Mondo. Qui il gruppo si divide: due temerari partono per il ripido sentiero, noi altri ce ne stiamo sornioni in riva al lago a fotografare le barche colorate e a sorseggiare una brodaglia marroncina che i nepalesi chiamano caffè. E’ qui che avviene il nostro primo incontro con dei piccolissimi insetti molto diffusi in Nepal, soprattutto nelle zone umide: le sanguisughe. Io me la scampo grazie agli stivali della moto ma Andrea e Giovanni vengono “pizzicati”.
Quando vediamo i due temerari rientrare alla base distrutti dal caldo e dalla salita è già ora di pranzo. Stavolta con il riso mangiamo anziché il solito pollo un gustosissimo pesce di lago.
A questo punto l’itinerario prevederebbe un giro in moto alle cascate di Devi ed alla Grotta di Gupteshwor Mahadev, ma di nuovo il cielo brontola e non appena rientriamo in albergo comincia a piovere violentemente.
L’indomani di buon’ora partiamo per Lumbini, altra città a circa 200 km di distanza. La tappa si rivela lunga e massacrante, nonostante la bellezza dei villaggi e del paesaggio, a causa delle pessime condizioni delle strade, che in più tratti non sono che gigantesche pietraie, e di una frana che ci fa perdere circa un’ora.
Proprio per strada notiamo che i villaggi sono tutti un po’ agitati attorno a dei grossi bufali. Capiamo in un attimo che è giornata di sacrifici e così ci fermiamo ad assistere allo spettacolo dell’uccisione di un bufalo. Non è per sadismo che uso la parola “spettacolo” bensì perché la religiosità di questo popolo fa sì che questo genere di evento sia in realtà un“sacrificio” e come tale sia preceduto e seguito da una serie di riti come quello di cospargere il capo dell’animale da sacrificare di fiori e di incensi recitando preghiere.
In realtà più che all’uccisione del bufalo sono interessata alla gente: tutto il villaggio partecipa all’evento, e questo mi consente di osservare, di fotografare, di familiarizzare con la gente, in particolare con i bambini che si lasciano fotografare per avere poi la possibilità di guardarsi sullo schermo della macchina fotografica digitale… Vorrei avere con me una stampante per potergli regalare le foto e poter cogliere un lampo di gioia in quegli occhi scuri e profondi…
Sono belli i bimbi nepalesi e sono tanti. Molti non hanno neppure le scarpe ma quando sorridono ti trapassano il cuore.
Arriviamo a Lumbini poco dopo le 16. L’albergo è davvero molto bello, la città invece offre poco sebbene sia molto famosa per aver dato i natali al Buddha nel maggio del 563 a.C. Visitiamo l’antico tempio di Maya Devi, rigorosamente a piedi nudi, dopo aver pagato un biglietto supplementare per macchina fotografica e cinepresa, ma non riusciamo a cogliere fino in fondo la sacralità del posto che, sinceramente, non ci sembra niente di che nonostante sia considerato dalle guide uno dei siti religiosi più importanti del mondo. Tuttavia, questa cittadina è l’unica a metà strada tra Pokhara ed il Chitwan che offre una buona sistemazione per la notte e dunque per i turisti occidentali è un po’ una tappa obbligata.
L’indomani riprendiamo la strada diretti al Chitwan. Ancora una volta ci troviamo ad attraversare coloratissimi villaggi e tratti di sterrato e di pietraia, soprattutto nella parte finale del giro. Arriviamo intorno alle 15, dopo aver incontrato per strada scimmie, cammelli ed elefanti. Perdiamo circa un’ora a causa della sfondata che, improvvisamente, perde la marmitta ed ha una emorragia di olio, ma grazie alle sapienti mani di Robert, il meccanico che ci accompagna, riesce ad arrivare a destinazione dove però subirà un ricovero di 48 ore.
Il resort è molto suggestivo, alloggiamo in piccoli lodge a due letti privi di energia elettrica. Tutto è all’insegna del massimo rispetto per l’ambiente. Non vedremo la cecata per due giorni, durante i quali lei e le altre Enfield saranno nelle mani di Robert, che ce la renderà nuovamente vedente.
Alla sella della moto si sostituisce immediatamente un’altra sella, molto più comoda, quella di un gigantesco elefante indiano. Difatti il calendario delle attività del Parco è molto fitto, quasi non ci danno il tempo di sistemarci che già ci portano nella giungla a dorso di elefante. La passeggiata dura circa due ore ed è molto emozionante: grazie al pachiderma riusciamo a vedere da vicino un paio di daini e molte specie di uccelli dai colori sgargianti, ma soprattutto abbiamo l’occasione di osservare a lungo mamma rinoceronte ed il suo piccolo.
Proprio il rinoceronte è il simbolo di questo parco, ce ne sono parecchi esemplari ed è abbastanza usuale avvistarli nel corso dei safari a dorso di elefante. In realtà per noi l’incontro si ripete anche il giorno successivo e stavolta siamo a piedi: un rinoceronte adulto si è spinto fino alla nursery degli elefanti, cosa inusuale, e dunque c’è molta agitazione anche trai pachidermi, preoccupati per i loro piccoli. La nursery ospita numerosi esemplari di elefante, il più piccolo ha appena due mesi e mezzo ed è tenerissimo osservarlo mentre prende il latte dalla madre e gioca con dell’erba.
Altra bellissima escursione cui partecipiamo è la navigazione del fiume a bordo di una canoa scavata in un tronco d’albero: il mezzo silenzioso è l’ideale per osservare gli uccelli e le tribù che abitano nei villaggi sparsi lungo il fiume, ma col senno di poi forse è stato un azzardo solcare un corso d’acqua dove vivono gaviali e coccodrilli. Maturo questa consapevolezza dopo essermi imbattuta in tre grossi esemplari degni di nota.
Le due giornate al Chitwan trascorrono intensamente tra un’attività e l’altra. Visitiamo gli abitanti di un vicino villaggio, i quali ci accolgono nelle loro capanne con gioiosi e ospitali sorrisi, assistiamo ad uno spettacolo di danze tribali, facciamo il bagno nel fiume a dorso di elefante, giochiamo con una femmina di elefante durante una lezione su questi splendidi animali e ne apprezziamo la dolcezza e la mansuetudine con cui accetta di essere compagna dell’uomo.
Quando ritroviamo la moto le mie piaghe dovute alla scomodità della sella non si sono ancora rimarginate e basta poco perché si riaprano: vi assicuro, non c’è cosa peggiore del sellino posteriore di una Enfield! Tuttavia stringo i denti e riprendo il viaggio. Ci attende una giornata impegnativa. La destinazione è Bakthapur, dove arriveremo dopo aver attraversato un suggestivo passo di montagna.
La strada è subito molto panoramica e fresca, offre vedute di alta montagna davvero suggestive e sfiora i 2500 metri di altitudine. Arriviamo a destinazione nel tardo pomeriggio, alloggiamo in un hotel di proprietà di un nostro connazionale che ci accoglie con una sincera stretta di mano e che l’indomani ci informerà che la nostra scelta di fare il passo di montagna per raggiungere Bakthapur si è rivelata azzeccata poiché l’altra strada è rimasta bloccata fino a sera a causa di un spaventoso incidente. Pare che un autobus abbia investito un bambino e che gli abitanti del villaggio abbiano deciso di farsi giustizia da soli rovesciando il mezzo e bloccando la strada. Ho sentito dire che in Nepal chi investe qualcuno deve mantenerlo fino a guarigione completa, ragion per cui talvolta si torna indietro per “completare l’opera”, ma immagino sia solo una battuta volta a sottolineare la totale assenza di regole che caratterizza questo paese, soprattutto dopo aver conosciuto la pacatezza della sua gente.
Bakthapur ci accoglie nella luce del tramonto: è splendida, il rosso delle case e degli antichi templi risalta più che mai, come pure la sua veste di città molto amata dai turisti. L’ingresso costa 10 dollari a persona. Dovrebbe essere una città pedonale ma invece le sue strette strade sono strapiene di moto. Già, perché in Nepal la moto è il mezzo più diffuso. Si vedono moltissime 125 giapponesi, modelli che sul nostro mercato non esistono, e trasportano intere famiglie. La cosa che più mi incuriosisce è la pedana laterale per il passeggero, che così può viaggiare seduto ad amazzone. Qualcuno anziché uno o due figli regge in braccio una capra.
Grazie ad una guida locale che parla benissimo l’italiano riusciamo a vedere anche la Bakthapur più vera, quella cioè meno turistica e più nascosta. Assistiamo a numerosi sacrifici nei templi, visitiamo talune botteghe ed una scuola di pittura con annesso il relativo negozio. E’ tutto molto bello, la gente è ospitale, i bambini ti chiamano dalle finestre per farsi fotografare, i negozi espongono ogni sorta di artigianato e per strada ci sono numerosi gruppi che giocano animatamente a carte. Ma la cosa che più mi rapisce sono gli splendidi templi. Per molti versi questo sembra un luogo senza tempo, in cui l’aspetto medievale si mischia con quello più moderno di città che, grazie ad un progetto finanziato negli anni settanta dal governo tedesco, ha potuto restaurare molti edifici decadenti, asfaltare le strade e dotarsi di una rete fognaria.
Passeggiare per la città è bellissimo: gli occhi sono continuamente rapiti da mille particolari: le pannocchie appese ad asciugare, le donne intente a pestare il grano, il riso steso ad asciugare al sole, i venditori di spezie che espongono sacchi di iuta pieni di cose dalle mille forme e dai mille colori. Riesco a malapena a distinguere lo zucchero, che qui è marroncino e viene venduto in grezze zollette piccole e irregolari.
E’ pomeriggio quando ripartiamo per la capitale, dove trascorreremo i nostri ultimi due giorni nepalesi. Avendo già visitato il famosissimo tempio hindu di Pashupatinath, dove abbiamo assistito anche al rito della cremazione dei defunti, e gli stupa di Bodnath e Swayanbunath, tutti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, decidiamo di dedicarci a Durbar Square e di fare un po’ di shopping.
L’iniziale imbarazzo verso il traffico e la confusione di Kathmandu è ormai svanito, ci muoviamo nella città perfettamente a nostro agio; curiosi e divertiti ci dedichiamo anche all’arte della contrattazione, che qui è un vero e proprio rito.
La riconsegna delle moto avviene senza traumi, per me è quasi una liberazione.
Quando saliamo sull’aereo che ci riporterà in Italia siamo tutti più ricchi e più sereni, questo viaggio e questa cultura hanno lasciato in ognuno di noi qualcosa di estremamente prezioso che non dimenticheremo mai.